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l'inverno e la primavera (part)


Paolo Veronese a Masèr
a cura di Primo Casalini


suonatrice sulla parete e bimba alla porta in trompe-l'oeil
cacciatore in trompe-l'oeil (autoritratto di paolo)
Di ville venete ce ne sono tante, quasi tutte belle, non tutte ben tenute, e molte si somigliano, ma la Villa Barbaro di Masèr è unica. I committenti furono due fratelli: Daniele e Marcantonio Barbaro, appartenenti alla aristocrazia veneziana, anche se la famiglia aveva radici triestine e manteneva interessi nel Friuli, difatti Daniele, un prelato assai colto, divenne anche Patriarca di Aquileia. Gli esecutori furono tre grandi artisti: Andrea Palladio per l'architettura, Paolo Veronese per gli affreschi ed Alessandro Vittoria per le sculture e gli stucchi nei cortili e nel parco attorno alla villa.
Masèr, un po' fuori mano rispetto agli itinerari consueti, è un paese agricolo a nord-ovest di Treviso (da cui dista circa 30 chilometri), vicino ad Asolo ed anche al fiume Piave. Il paese da una parte ha la pianura fertile, dall'altra colline boscose. La villa non è lontana dal paese, ed è costruita proprio al limite fra pianura e collina. Così la descrive il Palladio:
“La sottoposta fabbrica è a Masera Villa vicino ad Asolo Castello del Trevigiano, di Monsignor Reverendissimo Eletto di Aquileia, e del Magnifico Marcantonio fratelli de' Barbari. Quella parte della fabbrica, che esce alquanto in fuori, ha due ordini di stanze, il piano di quelle di sopra è a pari del piano del cortile di dietro, ove è tagliata nel monte rincontro alla casa una fontana con infiniti ornamenti di stucco, e pitture. Fa questa fonte un laghetto che serve per peschiera: da questo luogo partitasi l'acqua scorre nella cucina e da poi irrigati i giardini che sono dalla destra, e sinistra parte della strada, la quale pian piano scendendo conduce alla fabbrica, fa due peschiere co i loro beveratori sopra la strada comune, donde partitasi adacqua il Brolo, il quale è grandissimo, e pieno di frutti eccellentissimi, e di diverse selvatichine. La facciata della casa del padrone ha quattro colonne di ordine Ionico: il capitello di quelle degli angoli da fronte da due parti, i quali capitelli come si facciano, porrò nel libro dei Tempij. Dall'una, e l'altra parte vi sono loggie, le quali nell'estremità hanno due colombare, e sotto quelle vi sono luoghi da fare i vini, e le stalle, e gli altri luoghi per l'uso della Villa”.

la villa barbaro a masèr

Qualche chiarimento, tenendo sott'occhio l'immagine della villa. La scelta del Palladio, ma sicuramente anche dei Barbaro, è stata quella di costruire a ridosso della prima collina, per cui il cortile posteriore è all'altezza del primo piano della villa. La fontana ha certo uno scopo ornamentale, e così il laghetto-peschiera, ma soprattutto uno scopo di utilità: c'è il brolo (orto e frutteto) da innaffiare. Il corpo centrale della villa è la casa del padrone: residenza ed esibizione di potenza, ma ai lati ci sono le colombare ed una serie di locali con un preciso scopo pratico. Quindi la villa non era solo per villeggiatura, ma per viverci: il brolo non è messo lì per bellezza, c'è un grande spazio a disposizione, con ruscelli, sentieri e strade di raccordo. Naturalmente molte persone si occupavano di animali, frutta, vino, frumento, fontane e giardini.
Si trattava al tempo stesso di una villa e di una tenuta agricola. La prima volta che la visitai rimasi colpito dal fatto che la villa non fosse un museo, ma fosse normalmente abitata dalla famiglia Volpi, difatti è nota anche con questo nome.

l'inverno e la primavera

Daniele Barbaro (1514-1570) era esperto di matematica, filosofia, teologia. Ambasciatore in Inghilterra, delegato al concilio di Trento, tradusse il De Architectura di Vitruvio nel 1556, ed alle illustrazioni ci pensò il Palladio: erano proprio gli anni in cui si stava edificando la villa di Masèr.
Marcantonio Barbaro (1518-1595) fu ambasciatore in Francia ed a Costantinopoli, e lì fu imprigionato durante la guerra di Cipro, salvo poi concludere la pace nel 1573, due anni dopo Lepanto; scrisse per il Senato di Venezia delle relazioni importanti sulla Francia e sull'impero ottomano.
Il Palladio, nella sua descrizione della villa, non fa cenno al Veronese, e su questo si è discusso molto, ipotizzando che fra i due artisti ci fosse stato qualche disaccordo. Potrebbe essere molto semplicemente che il Palladio scrivesse dal suo punto di vista di architetto e di paesaggista, per cui avevano priorità la peschiera, il brolo, le colombare, l'acqua che scorre nella cucina, i frutti eccellentissimi, e naturalmente la casa del padrone. Il nesso fra Andrea Palladio e Daniele Barbaro è ben documentato negli anni 1550-60, ma come si stabilì il rapporto col Veronese, che eseguì gli affreschi nel 1560-61?

l'estate e l'autunno

Paolo Caliari era nato a Verona nel 1528, figlio di Gabriele, uno scalpellino. Nel 1541 era allievo di Antonio Badile, un pittore locale (di cui sposerà la figlia Elena nel 1565) e divenne famoso a Venezia nel 1553, con alcuni apprezzati affreschi in Palazzo Ducale; tre anni dopo, effettuò degli affreschi nella Libreria Marciana. Si decise di premiare con una catena d'oro il migliore dei sette pittori che nella Libreria avevano operato, ed il premio toccò al Veronese: nella commissione il parere più autorevole era quello di Tiziano. Ma gli affreschi ed i dipinti più importanti di quegli anni il Veronese li stava eseguendo, sempre a Venezia, nella chiesa di San Sebastiano, in cui tornò ad operare in varie fasi della sua vita, e che rimane, con Masèr, il luogo migliore per capire ed apprezzare l'arte del Veronese. La chiesa ha anche il pregio che, essendo vicina al canale della Giudecca, è meno affollata di tante altre mete artistiche di Venezia.
Prima di Masèr il Veronese aveva operato anche in una villa edificata da un altro grande architetto, Michele Sanmicheli, che era di Verona e che a Paolo era molto affezionato, a quel che dice il Vasari; inoltre pochi mesi prima di cominciare gli affreschi della Villa Barbaro, il Veronese aveva visitato con comodo Roma, quindi la cultura raffaellesca e michelangiolesca gli era ben nota, non solo, anche la Domus Aurea gli aveva suggerito spunti ornamentali e decorativi. Quindi non è detto che il Palladio fosse il tramite necessario fra i Barbaro ed il Veronese, che era ormai ben noto sebbene appena trentenne. Sapeva provvedere bene a sé: documenti di alcuni anni dopo mostrano che i prezzi delle opere del Veronese erano molto alti, quasi esorbitanti, simili a quelli praticati da Tiziano e ben superiori a quelle del Tintoretto, con cui per un quarto di secolo fu in stretta concorrenza. Tintoretto aveva la sua rendita di posizione nelle scuole, in primis quella di San Rocco, il Veronese fra i prelati colti ed i ricchi patrizi umanisti.

l'estate e l'autunno (parte centrale)

Il programma iconografico degli affreschi di Masèr fu deciso nei colloqui fra Daniele Barbaro ed il Veronese, che sicuramente si ritagliò un ampio spazio nelle modalità di rappresentazione, anche perché alle architetture dipinte (colonne, architravi, frontoni, capitelli) provvedeva suo fratello Benedetto, che era in piena sintonia con lui. Forse il Palladio non apprezzò molto queste architetture dipinte che si sovrapponevano ed in qualche modo offuscavano la sua architettura reale.
A Masèr non si sono ritrovate sinopie, il che significa che alla capacità esecutiva di Paolo bastavano solo schizzi e disegni che traduceva direttamente in pittura sul muro fresco. Anni dopo, si era creato un vero e proprio catalogo o repertorio di modelli, che sottoponeva in via preliminare ai committenti per agevolarli nelle scelte.
Poiché l'impresa di Masèr è molto vasta, si è anche discusso sullo spazio che hanno avuto i collaboratori, ma si è giunti alla conclusione che le cadute di livello sono molto limitate, e che comunque anche nelle parti minori si nota spesso la mano di Paolo. Quindi, oltre a mantenere la piena responsabilità della rappresentazione, il Veronese era in grado di tenere alto il livello degli aiuti, il che non sarà più così vero nel suo ultimo decennio di vita. Ma a Masèr il Veronese, nel pieno della sua capacità creativa, aveva ben presente quanto grande fosse l'occasione che gli era stata offerta.
paesaggio
bimba in trompe-l'oeil
Se si volesse etichettare con un titolo solo, si potrebbe dire che il programma di Masèr è “l'esaltazione della casa Barbaro”, ma c'è di tutto e di più sotto questo titolo.
Nella stanza dell'Olimpo, in alto c'è la Divina Sapienza ( o la Provvidenza?) che schiaccia il dragone del Peccato, con attorno i sette Pianeti ognuno col suo simbolo astrologico, poi i quattro elementi: Giunone-Aria, Cibele-Terra, Vulcano-Fuoco, Nettuno-Acqua. Scendendo nelle pareti, due lunette con le quattro Stagioni su due lati affrontati, sugli altri due Giustiniana Giustiniani, la moglie di Marcantonio Barbaro, con la nutrice ed i tre figli più scimmia, cane e pappagallo. Poi la stanza della Fede, quella della Fortezza, la stanza di Bacco e quella di Venere. Sulle pareti della stanza della Crociera, otto suonatrici fra le architetture di Benedetto. I paesaggi, presenti in diverse stanze e corridoi, sono tutti di fantasia, per meglio dire mnemonici, attingendo come facevano i manieristi al repertorio che ci si costruiva nel tempo. Ed i trompe-l'oeil: aste, bandiere, alabarde, una bimba (o una serva-bambina) che sbuca da una porta, il cacciatore che entra dal fondo del corridoio (è Paolo), la dama con ventaglio che sbuca dal corridoio opposto (è la formosa modella bionda di Paolo, quella della Primavera e dell'Estate). Ed altro ancora. Un catalogo che farebbe pensare ad una saccente confusione accademica, esattamente il contrario della sensazione che dà Masèr: una vita piena ed armoniosa, in cui tutto si raccorda, in cui tutto va a posto. E' questo il miracolo di Masèr.
Categorizzare a volte è inevitabile, ahimè. A volte il Veronese lo si trova sotto la voce Manierismo ed a volte sotto la voce Tardo Rinascimento, e nasce un doppio equivoco: da una parte lo si stringe in una camicia di Nesso in cui non entra, dall'altra lo si chiama fuori, come se la sua esperienza prescindesse dai tempi suoi, come se fosse un esteta che costruisce un suo mondo fatto di sogni guardando con eleganza il passato, un decadente, però di quelli tranquilli, o almeno non agitati.
Il Veronese non è un sognatore, la sua visione è una realtà più vera, non nel senso del bello ideale che cercherà il Reni cinquant'anni dopo, ma nel rinnovare lo sguardo, renderlo più limpido, congiungere chi guarda con chi è guardato. Una modalità unitiva, un sublime voyerismo che mostra quanto avesse imparato dal Correggio, che questo coinvolgimento dello spettatore nell'opera, questa complicità virtuosa (anche un po' viziosa, chissà) la scelse fin dalle sue prime opere. Si è notato che molti dei paesaggi di Masèr sembra che vogliano aprire le pareti del Palladio per congiungersi alla natura circostante, in modo non realistico, non impressionistico, piuttosto evocativo e musicale. Può darsi che questo modo di sfondare le pareti al Palladio non piacesse: un architetto ama che le forme di sua invenzione siano sottolineate, non eluse.

bacco insegna agli uomini l'uso dell'uva

Sì, il Veronese nasce manierista: Giulio Romano a Mantova ed il Parmigianino a Parma sono i suoi modelli, e lo si vede benissimo nei suoi disegni, in cui è sempre presente il gusto per la rappresentazione serpentinata dei corpi e per una anatomia che offra sorprese . Quindi, escludere il Veronese dalla corrente storica in cui è cresciuto è improprio; lo si fa perché il manierismo è stato denigrato per secoli, ma soprattutto perché certi aspetti del manierismo, la nevroticità, il tormento, il senso di chiuso o quanto meno di liberazione solo tentata, non si ritrovano in lui, anche se basta guardare il soffitto della chiesa di San Sebastiano o il soffitto della stanza dell'Olimpo a Villa Barbaro per accorgersi che il suo atteggiamento verso le forme della maniera è tutt'altro che negativo: le accetta e le utilizza volentieri, non le rinnegherà mai.
Ma il suo modo di rappresentare è, come dice splendidamente il Pallucchini, “dilatare le superfici, con vigilate iperboli, in modo che le figure offrano le massime distese cromatiche, staccando sull'azzurro dello sfondo”, e similmente la Brizio “risolvere la composizione in superficie grazie a larghe campiture di colore che danno ampiezza e intensità di apparizione e le fanno risaltare sul fondo chiaro”. Il che vuol dire anche che nel passaggio dal disegno al dipinto c'è una soluzione di continuità.
Poi c'è la sua formazione architettonica, con Michele Sanmicheli prima e con Andrea Palladio poi. Che rappresenti una scena biblica, un mito pagano, un paesaggio, una delle sue famose cene in casa di Levi, in casa di Simone, o nozze di Cana che siano, i corpi si raccordano l'uno con l'altro, e riesce a “comporre a legature successive di ritmo monumentale”. Si guardino le due lunette con le Quattro Stagioni, così affollate, ma pur sempre lievi, ed in cui solo l'ipotesi che manchi uno solo dei personaggi toglierebbe l'ubi consistam a tutta la composizione.
Infine, l'aspetto musicale. Non per caso, nella cena che è al Louvre, Paolo rappresenta un singolare quartetto d'archi in cui i suonatori sono lui, suo fratello Benedetto, Tintoretto e Tiziano (ci fosse Jacopo Bassano al posto di Benedetto…). Ed a Masèr, le otto suonatrici sulle pareti, le altre tre della rappresentazione dell'Armonia nella stanza del Tribunale d'Amore, non solo, musicale è tutta la struttura della rappresentazione, come musicale era l'architettura stessa del Palladio.
Così, il modo di rapportarsi al mondo ed alla natura non è realistico, neppure georgico, come era in Jacopo Bassano, né sentimentale come nei giorgioneschi; è un modo in cui le gerarchie dipendono soltanto dalla necessità o meno di quel dettaglio in quel luogo. Appunto, una necessità musicale.

i grandi tralci di vite

Nel processo che il Veronese subì dall'Inquisizione per la cena di san Giovanni e Paolo, ci sono due scambi di battute rivelatori (8 luglio 1573):
“Chi credete voi veramente che si trovasse in quella cena?”
“Credo che si trovassero Cristo con li suoi Apostoli, ma se nel quadro li avanza spacio, io l'adorno di figure, secondo le invenzioni.”
“Li par conveniente che alla cena ultima del Signor si convenga dipingere buffoni, todeschi, nani et simili scurrilità?”
“Io fazzo le pitture con quella considerazione che è conveniente, che il mio intelletto può capire.”
Paolo Veronese non è un Giordano Bruno ante litteram, anche perché a Venezia per fortuna l'aria non era pesante e nel processo si dibatteva se sostituire nel dipinto la Maddalena ad un cane, e presumibilmente i raffinati umanisti a Venezia ridevano dei frati zelanti, ma non mena il can per l'aia, risponde secondo il suo pensiero, il suo modo di vedere, il suo occhio che avvertiva le improprietà come un orecchio avverte le stonature, e le sue risposte sono ancora più sottili di quell'altra sua celebre: “noi pittori si pigliamo licentia, che si pigliano i poeti e i matti”, che è di una ingenuità un po' ironica, e fa venire in mente le risposte del buon soldato Schweik di Brecht, mentre le battute precedenti richiamano il dialogo che meno di centocinquant'anni dopo ci sarebbe stato alla Corte di Vienna, col “Troppe note!” dell'imperatore Leopoldo II ed il “Solo quelle che servono, Maestà” di Mozart. Il punto era lo stesso, anche se l'arte era diversa.

putti alati contendono l'argenteria di casa alla governante

Non c'è quindi nessuna separazione fra umani e dei, pagani o cristiani che siano; è un atteggiamento inclusivo per cui il senso di ogni cosa è nel rapporto che ha con le altre.
I termini euritmia, polifonia, armonia una volta tanto non sono professorali, ma professionali, corrispondono alla volontà dell'artista: la stessa sala la si può chiamare sala dell'Olimpo, sala della Provvidenza Divina, sala Astrologica, è solo una questione di punto di vista. Perché inclusivo è il rapporto fra le stagioni, i pianeti, gli elementi. La natura all'interno della villa è in corrispondenza con la natura al di fuori, purché tutto sia traducibile in luce e colore, perché è solo così che la si può sentire o capire. Nei paesaggi affrescati a Masèr il cielo occupa i tre quarti della composizione: è un modo di dare respiro, l'esatto contrario dell'horror vacui dei tempi barbarici, così la natura si sublima in ornamento, è un velo di Maya che non cela le cose, le svela.
Le note musicali hanno bisogno di uno strumento, un medium per essere udite. Per il Veronese è il colore il medium per esprimere il suo mondo, perché “il colore, nutrendo la sua fantasia figurativa, le suggerisce un mezzo docile e coerente per eliminare ogni punto morto accademico o puramente intellettuale” (Pallucchini). Non è il colore pastoso, caldo, atmosferico di Tiziano, è un colore arioso, che sa essere anche freddo, ma chiaro, intimo, vero. Perché non è figlio di un sogno, ma della luce di un pomeriggio sereno.

In rete ci sono diversi siti che trattano del Veronese in generale e dei suoi affreschi di Villa Barbaro in particolare, anche se sia per i testi che per le immagini è opportuno utilizzare alcuni fra i tanti testi a stampa, in cui c'è solo l'imbarazzo della scelta, visto che del Veronese a Masèr si sono occupati tutti i più grandi critici. A livello di curiosità, ma non solo, consiglio il sito della Fondazione Cini che, prendendo lo spunto da una mostra tenutasi nell'ormai lontano 1988, contiene delle ottime notizie biografiche e critiche, ed il sito Marca Trevigiana, in cui si possono trovare gradevoli immagini dell'esterno della villa e degli immediati dintorni.

affreschi nella stanza dell'olimpo



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  15 maggio 2004